La loro natura è ambigua, sono invocati nei matrimoni in quanto hanno il diritto di possedere le spose e sono invocati anche durante le malattie, ma al contempo si indossano amuleti per proteggersi da loro[1].
Le loro spose sono le apsaras le ninfe celesti[1].
Nel Ṛgveda Saṃhitā viene citato il gandharva di nome Viśvāvasu (X, 85, 21-22; "Benefico nei confronti di tutti"), guardiano del soma celeste.
Lo Atharvaveda (Atharvaveda, II, 2) sostiene che occorre allontanare il Gandharva con l'incantesimo.
Nel Taittirīya-Saṃhitā (I, 2,9) viene riportato il seguente mantra che va recitato quando il soma viene trasportato verso il capanno sacrificale:
«Prosegui, o Signore del mondo verso tutti i luoghi a te destinati. Non permettere che alcun avversario ti trovi, non permettere che ti trovino i ladri, né che il Gandharva Viśvāvasu[2], ti possa fare del male.»
(Taittirīya-Saṃhitā, I, 2,9. Citato in Margaret Stutley e James Stutley. Dizionario dell'Induismo. Roma, Ubaldini, 1980, p.130)
Nel Buddismo
I gandharva o gandhabba (pāli) sono una delle classi di deva di grado più basso; sono classificati come cāturmahārājikakāyika (i deva che abitano il monte Sumeru come servitori dei quattro Re Celesti), e sono servi di Dhṛtarāṣṭra, Guardiano dell'Est (versione buddista di Indra). Ci si può reincarnare come gandharva semplicemente praticando il primo livello del Śīla, i principi etici più basilari (Janavasabha Sutta, DN.18).
I gandharva possono volare, sono abili musicisti, sono connessi ad alberi e fiori, e sono tra gli spiriti della natura accusati di disturbare i monaci nelle loro meditazioni. Talvolta i gandharva sono chiamati yakṣa, in quanto questo termine a volte indica un insieme di divinità minori molto più ampio degli yakṣa in senso stretto.
Tra i gandharva più conosciuti (menzionati in DN.20 e DN.32) ci sono Panāda, Opamañña, Naḷa, Cittasena, Rājā. Janesabha è probabilmente Janavasabha, rinascita del re Bimbisāra di Magadha. Il gandharva Mātali è il cocchiere di Śakra.