La pellicola rappresenta la prima parte di una trilogia ideata e sceneggiata da Vitaliano Brancati, i cui altri titoli sono Anni facili (1953) e L'arte di arrangiarsi (1954).
Trama
Modica, 1935. Un semplice e onesto impiegato municipale, Aldo Piscitello, è costretto a iscriversi, non proprio entusiasticamente, al Partito Nazionale Fascista.
Il figlio dell'impiegato intanto, soldato, partecipa a varie battaglie e in tutte queste riesce a scampare dalla morte, ma muore però ucciso a tradimento da alcuni soldati tedeschi mentre ritorna a casa col rimpianto di non aver mai visto suo figlio, nato mentre lui era in guerra.
Nel 1943, allo sbarco degli Alleati, Piscitello si ritrova ad essere epurato dallo stesso sindaco che, quando era podestà, gli aveva imposto di prendere la tessera fascista.
Il film venne presentato al Festival di Venezia il 4 settembre 1948, accendendo alcuni dibattiti accompagnati da frasi come «Diffama l'Italia!», «Gli italiani non erano tutti così», «È un film senza luce».[2]
Polemiche
Dopo l'uscita nelle sale, nel novembre 1948, il film suscitò delle proteste, anche da parte di tanti personaggi influenti della scena politica tanto da finire come dibattito alla Camera dei deputati; i deputati democristiani furono quelli ad accanirsi maggiormente: Giuseppe Magliano, Mario Cingolani e Giovanni Persico (quest'ultimo socialista) chiesero al Senato la rimozione del film dalla circolazione cinematografica[3] accusando il film di offendere la Patria e di dipingere gli italiani come vigliacchi[4]; Filadelfio Caroniti e Giovanni Battista Adonnino presentarono un'interrogazione parlamentare tacciando il film di essere «immondo, bugiardo e calunnioso», e di gettare discredito sulle autorità statali e sulla «civiltà plurimillenaria della Sicilia, isola incantevole e perla del Mediterraneo»[5].
Il film venne però difeso da Andreotti in persona, che in qualità di sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega allo Spettacolo aveva sbloccato il film dalle maglie della censura. Andreotti riconobbe che nella "storia di un povero diavolo che fa le spese di tutti i rivolgimenti politici" una realtà "che tanti italiani han conosciuto".
Altri, come il comunistaPietro Secchia sostennero il film come un buon prodotto politico e cinematografico.[6]
Critica
«[...] È un film amaro, spregiudicato, coraggioso. [...] [La] prima parte, tenuta sui toni di un'amarognola cronaca provinciale, con arguti accenti da teatro dialettali, è molto divertente e spassosa. Poi il fascista Piscitello (ottimamente interpretato, con toni umani e sommessi, da Umberto Spadaro) continuerà nella sua odissea. [...] La seconda parte del film troppo si dilata nel tempo, gli avvenimenti che rapidamente tratteggia o rievoca sono più grandi di lui. A delineare una satira del fascismo in Italia sarebbe stato assai più efficace considerarne un breve periodo; un angolo di visuale che su tutto si aprisse con scorci molteplici. Il revisore di Gogol vive in un breve episodio; e in quell'episodio c'è tutta la Russia zarista veduta da Gogol. Qui invece, questo voler strafare, questo voler nulla omettere questo voler esaurire tutto il secondo decennio del regime, che s'incastra nella più grande tragedia che la storia del mondo ricordi: tutto ciò, anche per le inevitabili intrusioni documentarie, è veramente eccessivo, rende il film un po' meccanico e prevedibile, e soprattutto toglie alle singole pagine la possibilità d'un armonico respiro. Ma si tratta pur sempre di un film notevole, anche se la regìa sia qua e là facilona e corriva. È, ripeto, un film coraggioso. [...]»
«[...] il film di Zampa è singolare e discutibile. Il pubblico lo ha accettato ma era evidente il suo disorientamento. A degli spettatori, per i quali il regime fascista è stato, ed è segretamente, la miglior soluzione di tutti i problemi italiani (si sono riviste tutte le vecchie facce del passato ed anche qualche ex condannato a morte) non poteva essere gradita tutta l'ironia fatta alla retorica del ventennio, agli antifascisti dava fastidio la caratterizzazione di alcuni tipi di mormoratori da farmacia, ai democristiani non era digeribile la figura di due preti (il primo che nel disastro della guerra vede la famiglia come simbolo dell'Italia felice, prospera e imperiale sotto la guida dell'Uomo della Provvidenza, il secondo che approva la morte del prossimo «a fin di bene»). II film di Zampa però, trascendendo i limiti del piacevole racconto di Brancati, non affronta una tesi e non la porta alle estreme conseguenze, si limita a criticare senza costruire, secondo la moda del qualunquismo, scopre che tutto è marcio, ma non indica nessuna soluzione possibile, illustrazione del concetto che gli italiani vogliono «vivere in pace» (altra volta sostenuto da Zampa), che nessuno, né fascisti né antifascisti devono rompere le scatole, che tutti sono disonesti e ruffiani, quelli di prima e quelli di dopo, che quello che si vuole si ottiene solo con l'imbroglio (ne L'onorevole Angelina era la violenza). «Anni difficili» si esaurisce nella «battuta», nella mancanza di unità narrativa, più simile ad una serie di sketches che al dramma di un periodo della nostra storia. Avrebbe potuto essere un ottimo film se almeno tutto fosse stato tenuto sul filo del ridicolo, ma il regista ha voluto inserire fra un episodio e l'altro brani di autentici documentari di guerra che frazionano il racconto, che lo fanno rimbalzare di continuo dalla farsa alla tragedia. Queste sono le nostre riserve al film, al quale però riconosciamo, dove lo merita, una notevole abilità di mestiere che del resto Zampa ha dimostrato nelle precedenti opere. [...]»
«Già altre volte si è osservato come nei film di Luigi Zampa alla facilità narrativa non si accoppii una ugualmente felice scelta dei soggetti. Lo conferma questo «Anni difficili» [...] In pratica si verifica che il film manca assolutamente del necessario mordente satirico per poter aspirare alla qualifica di commedia del costume, dato che punta piuttosto su una comicità di bassa lega e su un assunto tematico alquanto discutibile oltreché di pessimo gusto: di essere cioè stati gli italiani dei vigliacchi per aver permesso l'avvento del fascismo. Tema che, come si vede, lascia supporre fondamentalmente che l'intento del regista sia stato quello di costituire un impossibile alibi, magari denigrando tutti gli italiani, ai veri e soli responsabili della ventennale dittatura.»
Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del cinema italiano. Dall'inizio del secolo a oggi i film che hanno segnato la storia del nostro cinema, Roma, Editori Riuniti, 1995, ISBN88-359-4008-7.