In vita furono cognati (Francesca era infatti sposata con Gianciotto, fratello di Paolo) e questo amore li condusse alla morte per mano del marito di Francesca. Francesca spiega al poeta come tutto accadde: leggendo il libro che spiegava l'amore tra Lancillotto e Ginevra, al momento del tanto agognato bacio scritto nel libro che si stavano dilettando a leggere, i due si trovarono anch'essi nel calore di un bacio che alla fine si scambiano e che caratterizza l'inizio della loro passione.
La tragica vicenda amorosa di Paolo e Francesca è riapparsa altre volte, sempre in letteratura (le tragedie del Pellico e del D'Annunzio) ma anche nell'opera lirica da parte di autori come Gounod, Thomas, Rachmaninov o Prokof'ev (balletto). Particolarmente conosciuta, apprezzata ed amata è la versione che ne ha dato nel 1914 il compositoreitalianoRiccardo Zandonai nella sua Francesca da Rimini. Non andrà sottaciuta la commossa "difesa" fatta da Boccaccio (vedi più avanti) il quale ci racconta che alla base del matrimonio tra Gianciotto e Francesca da Rimini ci fu un terribile equivoco incoraggiato se non architettato dai maggiorenti delle due famiglie. A Francesca, sostiene Boccaccio, fu fatto credere che avrebbe sposato il bello ed elegante Paolo. Gianciotto alla fine uccise entrambi.
La vicenda storica
Le due famiglie dei da Polenta da Ravenna e dei Malatesta da Rimini erano famiglie altolocate della Romagna. Dopo una serie di vicissitudini politiche, decisero di allearsi combinando un matrimonio tra la propria figlia e il proprio figlio (attorno al 1275).
Le nozze che suggellarono il patto coinvolsero la giovane Francesca da Polenta (1259 ca - 1284 ca.), lo zoppo e rozzo Gianciotto Malatesta[1] (1245 ca.-1304). Per guadagnare l'approvazione della giovane a questo matrimonio, la tradizione, opinabile a Giovanni Boccaccio, dice che sia avvenuto per procura, dove il procuratore fu il più arzillo e giovane fratello di Gianciotto, Paolo Malatesta detto il Bello (1246 ca. –1284 ca.), di Giaggiolo (rocca nell'Appennino forlivese), del quale Francesca si invaghì per un equivoco, credendo che il vero sposo fosse lui, anche se questo non poteva essere possibile perché Francesca sapeva benissimo che Paolo era già sposato. Si aggiungono poi al quadro narrativo tradizionale la figura del brutto e crudele Gianciotto, fino al maligno servo che spiava i due amanti e successivamente il tragico e noto finale del duplice omicidio degli amanti.
In realtà, secondo la vera documentazione storica dei fatti, sono pochi i dati veramente riscontrabili: i dati anagrafici dei protagonisti e la loro discendenza. Pare infatti che la coalizione tra le due famiglie fosse talmente vantaggiosa per entrambe, grazie a strategie politico-dinastiche complementari, che il fatto di sangue diventò un fatto da mettere a tacere il più presto possibile. Non si sa per esempio dove sia accaduto realmente il duplice omicidio: alcune ipotesi indicano il Castello di Gradara, altre la Rocca Malatestiana di Santarcangelo di Romagna, ma si tratta esclusivamente di congetture. Ancora, altre ipotesi parlano della Rocca di Castel nuovo presso Meldola o della rocca di Giaggiolo presso Civitella di Romagna.
Secondo alcuni studiosi, inoltre, l'assassinio (1284 ca.) della moglie Francesca da parte di Gianciotto avrebbe potuto avere uno scopo politico che il cosiddetto "delitto d'onore" sarebbe stato in grado di camuffare: Gianciotto, cioè, desideroso di procurarsi l'alleanza della città di Faenza, intendeva a tale scopo sbarazzarsi della moglie (che già a suo tempo aveva sposato non per amore ma per venia politica) per convolare a nuove e più opportune nozze. Fatto sta che egli pochissimo tempo dopo il delitto sposò in effetti la faentina Zambrasina dei Zambrasi, dalla quale poi ebbe 6 figli.
Con il primo cerchio dei peccatori in generale e in particolare con le parole di Francesca da Ravenna inizia quel processo di conversione, di redenzione del poeta che sarà uno dei temi teologici di tutto il poema. Il viaggio di Dante infatti non ha un ruolo di semplice illustrazione del mondo ultraterreno, ma vuole offrire una possibilità di redenzione dell'umanità. E la storia dei due amanti rappresenta la prima tentazione superata dal poeta, non senza grande sforzo e straziante complicità emotiva con i dannati (ipotizzata da vari critici), al punto che per la pietà egli stesso alla fine del canto sviene perdendo i sensi.[2]
La storia di Paolo e Francesca mette dunque in discussione Dante anche come poeta dell'amore, che nella sua concezione stilnovistica ha messo al centro della sua visione della realtà.
Non a caso Dante dopo la prima confessione della giovane ha un attimo di sconforto, resta assorto in silenzio: sembra pensare a come sia possibile che l'attrazione innocente, l'amor cortese si trasformi in peccato degno dell'Inferno, che poco dopo appare provocato proprio da un testo di letteratura, dalla lettura cioè di un libro dove si celebra un amore (quello tra Lancillotto e Ginevra) con le regole cortesi alle quali Dante stesso aveva aderito in gioventù. Quindi lo stesso sentimento che aveva ispirato a Dante i versi della Vita Nuova, adesso gli appare come una delle possibili cause di condanna eterna.
Dante, richiamato alla realtà da Virgilio ("Che pense?", al quale egli risponde con incertezza), infatti rivelerà una parte dei pensieri che lo stavano assillando e chiederà a Francesca una spiegazione su come questo sentimento si sia potuto trasformare in peccato. È solo colpa dell'adulterio? In realtà Dante non vede una colpa in sé nella pulsione amorosa, ma il peccato ne nasce quando nell'attuare questa pulsione si viene meno ai precetti morali, come quello sulla fornicazione nell'adulterio. Proprio questa contraddizione tra precetto religioso e forza travolgente dell'amore, espressa in forma così alta e rarefatta, spiega la simpatia di Dante per i due peccatori. Il poeta non si comporta da moralista, semplicemente descrive la tragicità del conflitto tra morale e passione, che sono due forze invincibili. Nonostante il poeta collochi Paolo e Francesca tra i dannati, non può fare a meno di provare un senso di profonda ed umana pietà e di compiangerne la sorte.[3]