L'omicidio Scialabba è collocabile in un contesto sociale che, fin dalla prima metà degli anni settanta, vide contrapposte fazioni di estrema destra e di estrema sinistra in un conflitto politico-ideologico che trascinò il Paese quasi alle soglie di una guerra civile tra le più drammatiche della storia repubblicana e che pose le basi per la nascita del terrorismo di matrice politica.
Come per tanti altri fatti di sangue di matrice politica avvenuti negli anni di piombo, anche questo omicidio, è assimilabile alla lunga schiera di atti di ritorsione tra estremisti di destra e di sinistra. Nel caso Scialabba, l'elemento scatenante che portò al suo omicidio, può essere ricercato in due differenti concause: quella stessa data, il 28 febbraio, ricorre il terzo anniversario della morte del giovane militante del FUAN, Mikis Mantakas, commemorazione che ogni anno porta in piazza molti neofascisti italiani. A questo pretesto si aggiungono poi i fatti di Acca Larentia, la strage in cui, il 7 gennaio di quello stesso anno, rimangono uccisi due giovani militanti di destra (Franco Bigonzetti di 19 anni e Francesco Ciavatta di 18 anni), a cui se ne aggiunge un terzo (Stefano Recchioni di 19 anni) colpito a morte a seguito degli scontri scoppiati con la polizia, subito dopo l'accaduto.[2]
Successivamente, da alcuni detenuti di destra, fu fatta circolare una “voce” secondo la quale, a commettere la strage di Acca Larentia, sarebbero stati i comunisti romani della casa occupata di via Calpurnio Fiamma, nel quartiere di Cinecittà. Tramite Dario Pedretti, appena uscito di galera, la voce era arrivata alle orecchie di Giusva Fioravanti, leader del neonato gruppo spontaneista armato dei Nuclei Armati Rivoluzionari: "Dentro mi hanno dato una dritta" afferma Pedretti "Dicono che a sparare ad Acca Larentia sono stati i compagni del centro sociale di via Calpurnio Fiamma."[3]
L'omicidio
La sera del 28 febbraio, spinti da propositi di vendetta, dal bar del Fungo, ritrovo dei neofascisti romani sito in zona EUR, parte un commando di otto persone: i due fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, Franco Anselmi, Alessandro Alibrandi, Dario Pedretti, Francesco Bianco, Paolo Cordaro e Massimo Rodolfo. Non sono però a conoscenza che, giusto il giorno precedente, lo stabile era stato sgomberato dalla polizia.[4]
«Eravamo a bordo di tre vetture, l’Anglia Ford di mia madre, la Fiat 127 bianca di Massimo Rodolfo e la Fiat 130 color senape o oro metallizzato di Paolo Cordaro. A bordo delle tre dette autovetture ci recammo in una stradina limitrofa a piazza Don Bosco e rilasciammo l’Anglia e la Fiat 127, mentre sulla Fiat 130 prendemmo posto io (Cristiano Fioravanti, ndr), Valerio, Alibrandi, Anselmi e il Bianco che fungeva da autista. Gli altri tre rimasero ad attenderci nella stradina ove avevamo lasciato le altre due vetture. Giunti in piazza Don Bosco sulla Fiat 130 la cui targa era stata coperta con un giornale, vedemmo che c’erano due o tre persone sedute su una panchina o staccionata dei giardinetti che si trovavano vicino alla strada, dalla parte sinistra, andando verso Don Bosco, mentre altre due o tre persone erano in piedi vicino alla detta panchina o staccionata. Il Bianco rimase al volante della vettura, ed egualmente a bordo della stessa rimase come copertura Alibrandi.»
Invece che ritirarsi strategicamente, tra le 23:10 e le 23:30, i neofascisti si recano nella vicina piazza Don Bosco, ritrovo per molti militanti di sinistra della zona. Arrivati nei pressi dei giardinetti, posti al centro della piazza, il gruppo a volto scoperto inizia a sparare su un capannello di ragazzi disarmati radunati attorno ad una panchina. Cristiano Fioravanti va a segno colpendo al torace Roberto Scialabba ma, subito dopo, gli si inceppa l'arma. Il ragazzo non è tuttavia ancora morto quando viene raggiunto da Valerio Fioravanti che lo fredda da distanza ravvicinata con due colpi alla nuca. Il resto del gruppo di compagni, in cui c'è anche Nicola, fratello di Roberto, riesce invece a darsi alla fuga ed a mettersi in salvo.
«Mi sembra che abbiamo fatto subito fuoco. Io sono sicuro di aver colpito una delle persone verso la quale avevamo sparato uno o due colpi, e non potei spararne altri perché la pistola si inceppò. Anselmi scaricò tutto il suo caricatore ma credo che non colpi nessuno, essendo lui un pessimo tiratore. Noi lo chiamavamo “il cieco di Urbino”. Valerio invece colpì uno dei ragazzi che cadde a terra. Visto ciò Valerio gli salì a cavalcioni sul corpo sempre rimanendo in piedi e gli sparò in testa uno o due colpi. Quindi si girò verso un ragazzo che fuggiva urlando, e sparò anche contro questo ma senza colpirlo. Io credo di aver colpito una delle persone al torace o all'addome; non so dire se si tratta del ragazzo rimasto ucciso o di quello ferito. Non si era parlato espressamente in precedenza di quello che si voleva fare, ma quando tornammo alle nostre macchine nessuna delle tre persone che ci attendevano ebbe a mostrarsi dispiaciuta.»
Qualche ora dopo arriva la rivendicazione dell'attentato da parte dei NAR che, con una telefonata al quotidiano Il Messaggero, si attribuisce la responsabilità dell'attentato (con la sigla «Gioventù Nazional Popolare») come vendetta per i fatti di Acca Larentia.
Nei mesi a seguire, la stampa e gli investigatori punteranno più sui piccoli precedenti penali di Scialabba per accreditare la pista di un regolamento di conti tra piccoli spacciatori, fino al marzo del 1982, quando il pentito Cristiano Fioravanti rivendicherà la paternità di quell'omicidio.